Simone in aula vuole parlare: "Non ho ucciso mia madre". Gli ex detenuti raccontano le sue confessioni in cella

TERAMO – Le sue parole arrivano al termine di una udienza convulsa, in cui più volte davanti ai giudici della Corte d’Assise sono riecheggiate le sue accuse al padre quale autore dell’omicidio della madre, riferite da chi ne aveva raccolto le confidenze in carcere: la voce di Simone Santoleri si è sentita quando ha chiesto e ottenuto di fare dichiarazioni spontanee davanti ai giudici togati e popolari. Lo ha fatto per dire di "non aver ucciso mia madre", che quanto raccontato dai tre detenuti ascoltati in udienza, altro non è che "fantasia costruita in un ambiente di delatori quale il carcere", che le accuse al padre di aver ucciso la donna è stata una supposizione "perchè era rientrato in casa senza di lei, dopo esserci uscito insieme".

Quanto saranno forti e incisive sul parere della Corte queste parole soltanto la sentenza potrà dirlo. Certo è che l’udienza di ieri nel proceeso a Giuseppe e Simone Santoleri, padre e figlio, per l’omicidio volontario della pittrice Renata Rapposelli, ex moglie e madre, ha scosso lo scolastico andamento del dibattimento conosciuto fino ad oggi. Sarà stato per le dichiarazioni di tre ex compagni di detenzione di Simone Santoleri, che hanno tutti e tre raccontato di questo indagato in attesa di giudizio che cercava il contatto con gli altri ospiti del penitenziario di Castrogno e che sembrava voler sfogarsi per mettere fuori un ‘groppo’: dire che a uccidere la madre era stato il padre. Come? Uno di loro, ricorda come Simone aveva descritto l’equipaggio in auto: "Disse che mentre lui guidava e la madre era sedura sul sedile passeggero, il padre, seduto dietro, l’aveva afferrata alle spalle per soffocarla con una mano su bocca e naso". Tra questa e altre versioni, altri particolari sul delitto, come "l’abbandono del cadavere in quel bosco nelle Marche, dove il padre non riuscendo a raggiungere con la macchina la sponda del fiume aveva fatto rotolare il corpo dal bagaliaio". Anche sul viaggio nelle Marche con l’auto di famiglia, ripresa dalle telecamere. Simone lo sapeva che era elemento in mano agli investigatori e giustificò quel viaggio: "Andava ad accompagnare il padre – hanno detto i detenuti – e la macchina era più ‘pesante’ del solito perchè nel bagagliaio c’erano dei pacchi che doveva consegnare alla sorella". Particolari e dettagli, per stessa ammissione dei tre detenuti del settore ‘protetti’ di Castrogno (uno di loro oggi è rinchiuso a Rebibbia, un terzo è stato rimesso in libertà), che venivano modificati di volta in volta, arricchiti e conditi di interpretazioni e valutazioni, fino al punto da "confonderci, senza sapere mai bene quale fosse la versione giusta di quello che era successo".
Ma una cosa colpì allo stesso modo chi, dentro al carcere, un giorno notò Simone particolarmente nergoso e scosso, quando bevendo un caffè con gli altri in cella, si lasciò andare alla frase "quella puttana mi ha rovinato la vita da bambino e me la sta rovinando anche da morta", accompagnandola con il gesto delle due mani a stringere qualcosa. Una mimica, ha voluto sottolienare il pm Enrica Medori in aula, che ricorderebbe tanto quello di un soffocamento, come fossero strette attorno al collo. Mentre il padre Giuseppe segue questi racconti distaccato e in silenzio dalla parte opposta dell’aula, i difensori di Simone Santoleri, Gianluca Reitano e Gianluca Carradori si agitano invocando un filtro sulle dichiarazioni rese in aula dagli ex pentiti, contestando l’attendibilità dei testi dell’accusa, avvezzi a collaborazioni giudiziarie senza un presupposto di verità. Tutto nelle mani della Corte, che dovrà valutare se Simone avrà spinto i racconti in cella affinchè potesse modificare una diversa scena del delitto e allontanara da sè il sospetto giudiziario di una responsabilità schiacciante o se i detenuti siano delatori che hanno abbiano tentato anche di convincerlo, come adombrato dalla difesa, a confessare al pubblico ministero di essere invece lui l’assassino della madre.